Due parole con...Nicola Brienza!

Abbiamo colto l'opportunità di intervistare l'allenatore dell'Aquila Trento Nicola Brienza col quale abbiamo trattato diversi temi in questa lunga intervista.

Scritto da Marco Tartini  | 

Abbiamo colto l'opportunità di intervistare l'allenatore dell'Aquila Trento Nicola Brienza col quale abbiamo trattato diversi temi in questa lunga intervista.

Brienza ha iniziato la sua carriera da giovanissimo, ricoprendo il ruolo di assistente allenatore a Cantù. Dopo più di dieci anni trascorsi in Brianza, si è trasferito in quel di Lugano per esordire come head coach, con ottimi risultati: Nicola ha trascinato i Tigers alle semifinali playoff del campionato elvetico, perse a causa di una tripla a fil di sirena avversaria.
Terminata l'esperienza in Svizzera, è approdato a Capo d'Orlando sempre nelle vesti di assistente, prima di fare definitivamente ritorno nella 'sua' Cantù. Lì, in seguito all'esonero di Pashutin, ha avuto la possibilità di allenare 13 partite della nostra massima serie, conducendo l'Acqua San Bernardo alla salvezza grazie ad un positivissimo record di 9-4. In estate è arrivata la definitiva chiamata da parte di Trento, club prestigioso dove ha potuto mettersi in gioco ad alto livello sia in Italia che in Europa.

Questa la nostra intervista

Innanzitutto come sta? Come sta vivendo questa quarantena?
Fortunatamente sono riuscito a ricongiungermi con la mia famiglia e nessuno dei miei cari è stato colpito da questo virus, per cui dal punto di vista sanitario è tutto apposto. Parlando invece dell'aspetto professionale, insieme alla dirigenza stiamo iniziando a pensare a quello che potrebbe essere il futuro dell’Aquila.

Prima di parlare di questa stagione mi permetta un excursus nel passato.
Lei ha raccontato di come la sua carriera da allenatore sia iniziata in seguito ad un infortunio. Pensa che anche senza di esso avrebbe comunque intrapreso questo percorso professionale?

Bella domanda! Diciamo che ovviamente mi piaceva molto giocare, per cui se non mi fossi infortunato avrei continuato la mia carriera e di conseguenza non so se i due percorsi si sarebbero mai incrociati. Sicuramente non sarei stato un giocatore da Serie A, ma forse avrei potuto raggiungere la B. Ad ogni modo, così come nel film ‘Sliding Doors’, delle casualità mi hanno cambiato la vita.

Ha vissuto una delle situazioni più incredibili degli ultimi anni, allenando Cantù sotto la gestione Gerasimenko. Come è stato lavorarci in quel periodo e cosa si porta dietro da quell’esperienza?
È stata un'esperienza formativa perché ho avuto la possibilità di lavorare in un contesto che in Italia è inusuale, dove vi erano dei grossi problemi extra-cestistici. Avere un presidente che o non paga o che paga in ritardo, e che è inoltre molto presente all'interno del campo, non è sicuramente d'aiuto. Bisogna adattarsi ed imparare a gestire una figura così ingombrante, cosa sicuramente non semplice dal momento che allo stesso tempo è anche il tuo capo, e in quanto tale va rispettato.
A Gerasimenko non era chiaro che ci fossero delle situazioni che era giusto che venissero gestite dalla dirigenza, e altre che riguardavano invece gli allenatori e la squadra. Provare a farglielo capire non è stato facile, e onestamente penso che nessuno ci sia riuscito. Tuttavia, con il tempo ho imparato a conviverci.

Sempre a Cantù ha avuto la possibilità di vivere quotidianamente al fianco di molti grandi allenatori e giocatori (mi vengono in mente i coach Trinchieri e Pashutin, Metta World Peace e Manuchar Markoishvili). C’è qualcuno con cui ha stretto un rapporto particolare?
Ho stretto un rapporto eccellente con tutti. Così per ridere ti faccio l’esempio di Pashutin, che mi scrive costantemente da qualche settimana.
In seguito agli aiuti arrivati in Italia dalla Russia per affrontare l’emergenza Coronavirus, Evgenij mi ha fatto notare il senso di fratellanza che c’è fra di noi e le nostre nazioni. In generale, ho avuto la possibilità di lavorare con grandi persone oltre che grandi giocatori ed allenatori, e questo ha sicuramente reso tutto più facile.

Awudu Abass ha recentemente dichiarato che a Cantù lavorava tutti i giorni con lei per migliorare i propri fondamentali, e questo lo ha aiutato a diventare il giocatore che è ora. Che sensazioni prova nel vedere che ad oggi è considerato uno dei migliori italiani del campionato?
Io e Abi abbiamo praticamente iniziato assieme: io ero un giovane coach che allenava le giovanili, mentre lui era un undicenne che giocava in una società situata nei pressi di Cantù. I primi incontri fra di noi avvennero quando andai a vederlo nel tentativo di reclutarlo e portarlo con me, e poi di fatto abbiamo trascorso sette o otto anni insieme. Avevamo la presunzione, io per stimolarlo e lui perché giustamente ci credeva, di allenarci quotidianamente con l’idea di fargli raggiungere la Serie A, e questo obbiettivo a lungo termine lo ha spinto a lavorare come un pazzo. Il merito è ovviamente soltanto suo, ma essere stato colui che gli è stato vicino e che lo ha ‘assecondato’ mi rende sicuramente molto orgoglioso.

In che modo l’ha arricchita l’esperienza in Svizzera?
Innanzitutto devo dire che è stata un’esperienza super. Fare l’assistente di molti grandi allenatori mi ha dato l’opportunità di imparare tantissime cose, però poi, così come un giocatore che ha bisogno di giocare le partite e non solo di allenarsi, ho sentito la necessità di provare l’esperienza head coach, affrontando le scelte e le responsabilità che il ruolo comporta. Andare a Lugano, una società di livello inferiore ma non per questo meno seria, mi ha dato la possibilità di lavorare in un contesto simile a quello italiano. Il roster comprendeva infatti cinque statunitensi e diversi naturalizzati/‘passaportati’, così come la maggior parte di quelli della nostra A1. È stato un periodo di formazione che se tornassi indietro nel tempo rifarei senza il benché minimo dubbio.

Cosa ha provato nel momento in cui ha scoperto che Trento l’aveva scelta come successore di un allenatore del calibro di Buscaglia?
Ero molto orgoglioso ed emozionato. A Trento ho trovato una società che, ancor prima che per gli importanti risultati raggiunti, si è dimostrata solida, seria e professionale. Tutte queste caratteristiche permettono di lavorare con la consapevolezza di aver le spalle coperte, cosa che al giorno d’oggi dovrebbe essere scontata, ma purtroppo non lo è.

Quella appena giunta al termine è stata la sua prima stagione completa, anche se completa poi non si è rivelata, da capo allenatore. Come l’ha vissuta e qual è il suo bilancio?
L’ho vissuta alla grande, con quel senso di responsabilità necessario per raggiungere il livello più alto possibile. A Trento, come in qualsiasi altra squadra, ho avvertito la pressione legata alla necessità e alla volontà di far bene, ma ho imparato a conviverci e a controllarla. È stato necessario, ad esempio, non esaltarsi troppo dopo una vittoria e allo stesso modo non demoralizzarsi in seguito ad una sconfitta, cercando piuttosto di valutare ogni situazione con lucidità.
Invece, per quanto riguarda l’andamento della stagione mi posso dire soddisfatto. Purtroppo nei primi mesi siamo stati parecchio altalenanti a livello di rendimento e di risultati, ma ho apprezzato il fatto che i ragazzi, anche dopo una brutta prestazione, hanno sempre trovato la maniera di rialzare la testa, cosa fondamentale per andare avanti e creare una mentalità vincente.

Ha avuto la possibilità di partecipare anche ad una competizione prestigiosa come l’EuroCup. C’è qualcosa che l’ha colpita particolarmente? Cosa ha imparato confrontandosi con alcuni dei migliori club del panorama europeo?
Abbiamo giocato contro formazioni eccellenti, alcune con una grande storia alle spalle, mi vengono in mente ad esempio a Malaga, Galatasaray e Partizan, e altre con una tradizione ‘meno importante’, come Gdynia o Oldenburg. La cosa che impressiona è che indipendentemente dalla nazione di provenienza o dal campionato in cui competono il loro livello è sempre alto, e non puoi pensare di disputare una partita a marce ridotte.
L’aspetto mentale è fondamentale, perché la qualità degli avversari è talmente elevata che appena cali d’intensità rischi di incorrere in batoste o brutte figure. Penso che in particolar modo nel primo girone ci siamo fatti onore, concludendo con il 50% di vittorie e battendo ogni squadra. Della seconda parte, invece, salvo le prime tre gare, nelle quali siamo riusciti a mettere in difficoltà corazzate come Virtus, Darussafaka e Belgrado.

Avete aggiunto un giocatore di spessore come Ale Gentile a stagione in corso. Che modifiche avete dovuto apportare al vostro sistema per inserirlo? Quali difficoltà avete incontrato?
Come dissi quando lo firmammo, reputo Alessandro il miglior giocatore della Serie A insieme ad Awudu Abass, ex NBA/Eurolega a parte. Bisogna quindi dargli una visibilità di un certo tipo, e permettergli di giocare per quelle che sono le sue caratteristiche.
Averlo inserito a fine preparazione, dopo che avevamo lavorato per due mesi in una determinata maniera, ci ha costretto a cambiare radicalmente il nostro stile di gioco, in modo da renderlo ‘compatibile’ con le doti di Gentile. C’è stato un primo periodo di fisiologico ambientamento in ha dovuto capire il contesto in cui si era ritrovato, ma una volta prese le misure si è rivelato fondamentale per noi.
È chiaro che quando giochi ogni tre giorni il tempo materiale per chiudersi in palestra a lavorare è poco, per cui devi farlo anche nel corso delle partite, e noi ci siamo riusciti con risultati alterni. Ci tengo a dire che lui è stato molto bravo e disponibile, e in tante occasioni ci è stato d’aiuto e ci ha tolto le castagne dal fuoco.

Una delle cose che più ha stupito in questa stagione è stata la crescita esponenziale di Andrea Mezzanotte. Cosa l’ha spinta a dargli fiducia fin da subito, affidandogli molte responsabilità anche in EuroCup?
Andrea è un ragazzo dall’enorme potenziale, molto importante in ottica Nazionale futura e che per il prossimo decennio potrebbe competere ad alti livelli, non solo in Italia. Quella di quest’anno era fondamentalmente la sua stagione d’esordio in Serie A, poiché l’anno scorso è stato impiegato per pochissimi minuti, e come dicevamo in precedenza un giocatore ha bisogno di spazio e responsabilità per crescere. In qualità di Aquila Basket, penso sia nostro dovere dare ai giovani atleti la possibilità di svilupparsi, in modo analogo a quanto fatto ai tempi con Diego Flaccadori. Come ho dichiarato più volte, il futuro di Mezzanotte dipenderà soltanto da lui: nel corso dei mesi si è guadagnato il rispetto delle difese avversarie, che prima non lo prendevano troppo in considerazione, e adesso è chiamato a confermarsi a questi livelli e a fare quel qualcosa in più per compiere ulteriori passi avanti.

Il rovescio della medaglia è che molti ritengono che Blackmon non sia sempre riuscito ad esprimere tutto il suo potenziale. Condivide quanto detto oppure ha un’altra lettura?
Sono soddisfatto da quanto fatto da JB, indicato inizialmente come leader tecnico della squadra, ma capace di adattarsi all’arrivo di Ale. Negli ultimi due mesi è stato impiegato come sesto uomo di lusso, un ruolo che non ha mai ricoperto in carriera: in qualunque squadra abbia militato è sempre stato la prima punta, e colui a cui venivano affidate maggiori responsabilità. Malgrado tutti i cambiamenti che ha dovuto affrontare nell’arco della stagione, è stato molto partecipe e propositivo in ogni situazione. Nonostante un allenatore solitamente non dia loro troppo peso, anche le sue statistiche sono state ottime: ha prodotto tanti punti e concluso con il 44% da tre, quest’ultimo dato non banale per un giocatore impiegato mediamente per 25 minuti. Inoltre, apprezzo il fatto che, consapevole delle sue difficoltà nella metacampo difensiva, abbia lavorato molto e compiuto notevoli progressi. Non posso dunque dire di essere insoddisfatto del ragazzo.

A suo parere qual è stato il momento migliore della stagione trentina, e quale invece il peggiore?
Il momento migliore è stato sicuramente tutto l’ultimo mese di stagione, in cui, probabilmente a causa dell’eliminazione dall’EuroCup e la conseguente maggior concentrazione riservata al campionato, siamo stati protagonisti di buone performances. Penso ad esempio alle vittorie contro Varese, Sassari e Brescia, partite che fai fatica a disputare se non hai raggiunto una buona alchimia e dei giusti equilibri. Un periodo brutto in generale a mio parere non l’abbiamo mai avuto perché, come suddetto, abbiamo avuto la capacità di rialzarci dopo ogni dolorosa sconfitta. Il match che ci ha lasciato più cicatrici è stato quello casalingo con Roma, seguito però dalla grande vittoria ai danni di Malaga. Il nostro rammarico riguarda perlopiù singoli episodi, che hanno lasciato l’amaro in bocca a noi in primis, ma anche ad i tifosi che venivano puntualmente a sostenerci.

Quant’è stato importante per lei avere al proprio fianco un vice allenatore come Lele Molin, e più in generale un coaching staff competente e molto esperto? In cosa l’ha aiutata maggiormente?
Io e Lele ci conoscevamo già visti i nostri trascorsi a Cantù, e, per il rapporto umano ancora prima che per l’aspetto puramente tecnico, ritengo lui, ma anche Davide (Dusmet, ndr) e Nenad (Jakovljevic), molto importanti. Essendo un allenatore alle prime armi, avere al mio fianco delle persone genuine come loro mi ha aiutato un sacco, e in questo senso li considero super. Sulla loro competenza non penso ci sia molto d’aggiungere perché la carriera ad esempio di Molin è imbarazzante, nell’accezione più positiva del termine, e ogni consiglio che può darti è dunque un suggerimento valido e utile. Devo riconoscere che dal punto di vista dello staff la società mi ha messo nelle migliori condizioni per poter lavorare, ringrazio quindi il club e i miei colleghi per la loro disponibilità.

Il campionato di quest’anno è stato molto equilibrato, e ha dimostrato che ciascuna squadra aveva la possibilità di giocarsela con chiunque. Quale pensa che fosse, però, la più attrezzata per arrivare fino in fondo?
Penso che alla fine Venezia e Milano sarebbero potute essere le due squadre con una marcia in più. La Reyer quando c’era da vincere ha vinto, come ad esempio in Coppa Italia, cosa non automatica e che avrebbe fatto di lei una valida pretendente al trono d’Italia. Per quanto riguarda l’AX, per gran parte dell’anno ha sofferto il doppio impegno fra campionato ed Eurolega, consumando parecchie energie fisiche e mentali. Ad ogni modo, sono convinto che nel momento in cui sarebbero iniziati i playoff, con la coppa finita o in procinto di esserlo, l’Olimpia avrebbe trovato la sua stabilità, facendo valere la qualità e la profondità del suo roster.

Parlando di attualità, è d’accordo con la decisione della FIP di sospendere il campionato?
Assolutamente sì. È stata la scelta più intelligente e razionale che avrebbero potuto fare in questo momento storico: esulando l’aspetto sanitario e la situazione generale che il mondo sta vivendo, credo che porre fine a questa stagione possa permettere ai vari club di programmare il proprio futuro, cercando le risorse di cui necessitano per ripartire. Alla fine dei conti non avremmo comunque giocato, quindi una soluzione diversa da quella applicata avrebbe soltanto fatto perdete del tempo prezioso.

Eurolega ed Eurocup stanno invece cercando una soluzione per portare a termine la stagione. Pensa che sarà davvero possibile?
Non lo so, è un proposito piuttosto ambizioso. Da allenatore pensare di rimettere in campo la squadra oggi, dopo mesi di inattività, mi sembra davvero complicato. Posticipare i playoff a settembre potrebbe essere un’ipotesi papabile, ma cercare di riprendere a maggio col rischio, nel malaugurato caso in cui un giocatore dovesse contrarre il virus, di dover poi chiudere nuovamente tutto mi sembra abbastanza utopico.

Una volta finita l’emergenza, ci auguriamo il più presto possibile, cosa crede che sarà necessario fare per ripartire con il piede giusto?
Penso che l’anno prossimo sarà un anno di transizione per tanti. Molti club si stanno già leccando le ferite, e bisognerà quindi capire se e in caso con che possibilità una determinata società potrà riprendere. Allo stesso tempo c’è molta voglia da parte di tutti di far ripartire la macchina e ancora una volta, dopo aver toccato il fondo, dovremmo farci coraggio e ripartire con positività, dando nuova linfa al sistema.

Da estimatore di Craft le chiedo se secondo lei sia possibile che questo stop forzato faccia tornare Aaron sui suoi passi, oppure se pensa che quella contro Belgrado sia stata veramente l’ultima partita della sua carriera.
Tutti noi saremmo ovviamente contenti se ci dicesse di aver cambiato idea e che vorrebbe portare avanti un certo tipo di percorso. Ahimè, essendo Craft una persona estremamente seria e metodica, il fatto che avesse pianificato il ritiro con così tanto anticipo mi fa difficilmente credere che possa cambiare idea. Se ha pensato che è arrivato il momento giusto, purtroppo è improbabile che ritorni sui suoi passi.
Nell’ultimo mese e mezzo stava lavorando come un pazzo sul suo tiro insieme a Davide Dusmet, e a Belgrado lo ha dimostrato (3/5 da tre, per lui che non è sicuramente uno specialista, ndr). Scherzando gli ho detto ‘Aaron, ti stai facendo un c*** grande come una casa e adesso che hai iniziato a far canestro smetti di giocare. Fatti un’altra stagione nella quale mettiamo a frutto tutto il tuo impegno’. Lui ha replicato dicendo che avevo ragione, e mi piace quindi pensare che ci sia ancora una (seppur minima) possibilità che cambi la sua decisione.


Ringraziamo ancora una volta coach Brienza, oltre che l’intera organizzazione dell’Aquila Basket.


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