Drew Brees dice basta, è stato l'icona di New Orleans

Tutto vero, dopo 20 anni di magie la leggenda dei Saints ha deciso di appendere il caschetto al chiodo, il nostro tributo al #9 neroro.

Scritto da Fabio Gabrielli  | 
Mercedes-Benz Superdome

Tutto vero, dopo 20 anni di magie la leggenda dei Saints ha deciso di appendere il caschetto al chiodo, il nostro tributo al #9 neroro.

 Post partita del Divisional 2021 appena giocatosi a New Orleans fra Saints e Buccaneers. Brady e Brees chiacchierano amabilmente immersi nel silenzio di un Superdome vuoto. I tre figli maschi di Drew imperversano per il campo vuoto come se fosse il loro giardino di casa (uno di questi ha anche il privilegio di ricevere in endzone un lancio dello stesso Brady).

Poi arriva il momento dei saluti, un abbraccio e Brady raggiunge i compagni di casa per il volo che li riporterà a Tampa dopo la vittoria che consegna ai Buccaneers una sfida con i Packers nel Championship della settimana seguente. Raggiunto anche da moglie e figlia, Brees lascia il campo in un atmosfera malinconicamente tranquilla. Questa scena, così lontana dal solito festoso caos del Superdome è stata in qualche modo foriera di una decisione che, dopo qualche settimana di riflessione, è arrivata solo ieri. Drew Brees si ritira ufficialmente dalla NFL lasciando un vuoto che, a New Orleans, sarà difficile colmare

Tutto iniziò così

Facciamo però un passo indietro e cominciamo dal 2001. Uscito da University of Purdue Brees si porta dietro la fama di essere una vera macchina da touchdown e yards lanciate su cui grava un unico neo. L'altezza. Siamo nel 2001 e certi "dubbi" sulla statura di un quarterback fanno ancora paura. Per questa ragione nessuno rischia il pick al primo giro e Brees scivola in mano ai Chargers con il primo pick del second giro. Paradossalmente Drew va a fare il sostituto di uno più basso di lui (1.80 vs 1.78), Doug Flutie, pluricampione nella lega canadese di Football Americano e con buone statistiche anche a livello NFL. Dopo un anno a fare il back up, Brees prende il posto da titolare e i Chargers arrivano anche ai playoff dopo un paio di anni di alti e bassi.

Ma a San Diego non credono completamente in lui e il messaggio arriva forte e chiaro con la scelta al primo giro del draft 2004 di Phillip Rivers (con il famoso scambio con Eli Manning che aveva manifestato l'intenzione di non giocare in California). La scelta porterà poi Brees a lasciare San Diego due anni dopo: San Diego punta su Rivers e per il #9 si aprono due porte possibili, Miami o New Orleans. I Dolphins, ad un vero crocevia della loro storia, decidono che i recenti guai fisici dell'ex Purdue (spalla) sono troppo rischiosi e non superano l'offerta dei Saints che si accaparrano le prestazioni di Brees facendo felice, al contempo, il nuovo coach, il debuttante Sean Payton.

Il Santo

Che fine abbiano fatto i Dolphins da quella volta lo sappiamo tutti così come sappiamo che magia si crea fra Payton e Brees. È l'inizio della leggenda. La genialità offensiva del neo head coach e la bravura del #9 creano subito l'atmosfera e il gioco giusto nella Big Easy. New Orleans timbra un positivo 10-6 di record e solo la mostruosa difesa dei Bears impedisce ai Saints di arrivare al Superbowl con una bruciante sconfitta a Chicago a fine gennaio nel NFC Championship. New Orleans diventa una cosiddetta "powerhouse" della NFL, con un attacco micidiale e perennemente candidata al titolo. 

La consacrazione arriva con la W nel Superbowl di qualche anno dopo contro i Colts guidati da Peyton Manning. Brees è l'MVP del Superbowl e per New Orleans è una festa che va oltre le consuete parate post vittoria. La città della Louisiana può finalmente togliersi di dosso i fantasmi del 2005, la devastazione provocata dall'uragano Katrina, le immagini di un Superdome utilizzato come rifugio per gli sfollati con un trionfo che la rimette, in qualche modo, sulla mappa degli Stati Uniti d'America per qualcosa di positivo.

Quello del 2010 è rimasto poi l'unico titolo vinto dal quarterback texano con i Saints a sprecare ottime stagioni dell'attacco con reparti difensivi non all'altezza o vittime, come negli ultimi anni, di una sorta di maledizione playoff che ha privato i nero-oro di quella seconda partecipazione al Superbowl che sarebbe stata meritatissima. Una New Orleans colpita da giocate ai limiti del miracoloso (il TD Cousins-Diggs contro Minnesota), chiamate arbitrali criminali (contro i Rams l'anno dopo) o partite nate male e finite peggio (ancora contro i Vikings e quest'anno contro i Bucs).

Epilogo

Proprio in quest'ultima stagione è stato evidente come lo stesso Brees non fosse più quello di una volta: lanci un filo in ritardo, quell'attimo di incertezza in più rispetto al passato e una forza di braccio non paragonabile e quella passata. Un declino misurato ma costante che ha portato l'ex Purdue a ritirarsi proprio ieri. 

Al di là dei tantissimi record individuali fatti registrare in questi anni dove spicca su tutti l'essere l'All-Time Leader per yards lanciate (80,358) e passaggi completati (7,142), Brees è stato in grado di farsi apprezzare anche fuori dal campo, il #9 ha saputo abbracciare la città che lo ha rilanciato, con un impegno fuori dal campo da vero campione: sempre in prima linea con la sua Fondazione personale per aiutare chi colpito dall'uragano Katrina o, più di recente, per l'emergenza Covid-19. Azioni che, nel 2006, gli hanno permesso di vincere il prestigioso Walter Payton Award dedicato a chi riesce a distinguersi, fra i giocatori NFL, per la beneficenza e le opere caritatevoli.
Un impegno che, miscelato con il fatto di essere stato il leader del periodo d'oro dei Saints (da sempre considerati una specie di "berlina" della Lega per i tanti insuccessi), lo rendono e lo renderanno sempre un personaggio amatissimo in tutta la Louisiana.

Ora lo aspetta una carriera da commentatore in TV (con la NBC, pare) e, fra qualche anno, l'ingresso nella Hall of Fame di Canton, Ohio e un giubbino dorato a sigillarne l'imperitura gloria fra i gradi di questo sport.

 


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